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DA SUBIACO A LONDRA,
PER IL THE CIVITATE DAY

Metti una sera a Londra il gotha della cultura europea, in una sede diplomatica italiana, con un ospite d’eccezione di 553 anni che non smette mai di parlare…

Si tratta di un evento eccezionale sotto il profilo culturale e al contempo di un paradosso storico. Parliamo del prestito ottenuto dall’Ambasciata Italiana a Londra del De Civitate Dei di Sant’Agostino stampato nel 1467 nella prima officina tipografica italiana: quella dell’Abbazia di Subiaco. Non molto tempo fa abbiamo parlato dell’eccezionalità del Donatus, primo libro stampato in Italia nella stessa Abbazia solo qualche anno prima dell’opera agostiniana. Con il medesimo orgoglio raccontiamo oggi il prestigioso ruolo conferito al “nostro” De Civitate Dei nell’ambito dell’evento inaugurale che ha ospitato sotto lo stesso tetto (quello dell’Italian Embassy of London) il Mibac, la Biblioteca Nazionale, l’Abbazia di Subiaco, l’Università di Oxford, la Fondazione Fedrigoni Fabriano, le case editrici Phaidon e Taschen. Mica Federico Moccia e Giulia De Lellis, voglio dire.

Se vi state chiedendo il motivo di tanta attenzione nei confronti di questo libro, sappiate che non siete soli. Sì, certamente l’importanza si deve in parte alla sua anzianità, al fatto che faccia parte del ristrettissimo club dei protoincunaboli sublacensi, i primi quattro libri della nostra storia italiana. Ed è sicuramente rilevante quanto affermato a Londra da dom Fabrizio Messina Cicchetti, direttore della Biblioteca di Santa Scolastica custode del testo, rispetto all’eccezionale circostanza di un libro che esce di casa per la prima volta dopo oltre 550 anni. Ma se ci limitassimo a questi elementi rischieremmo di ridurre l’evento ad una festa di stampo ottocentesco in cui un ambasciatore si fregia di poter disporre per qualche mese di un testo antico mai prestato prima. Non è così. Il codice è davvero una miniera di informazioni sulla nascita della stampa e pertanto sarà realisticamente oggetto di studi durante il suo soggiorno inglese. Per entrare un poco di più nel dettaglio mi sono avvalso dei preziosi scritti di Massimo Miglio, presidente dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo.

Anche se sembra un ossimoro, all’origine dell’unicità del De Civitate Dei di Subiaco sta il suo doppio. L’incunabolo è infatti legato ad una versione manoscritta considerata la “guida” utilizzata per la realizzazione della stampa, e in questo l’opera vanta effettivamente un primato italiano. La naturale conseguenza sta nel raffronto tra i due testi, che continua a fornire peculiari informazioni sulle origini della stampa, sia sotto il profilo tecnico che filologico. Tra mille acquisizioni che lascio agli addetti ai lavori, un paio sembrano particolarmente suggestive anche per noi comuni mortali.

La prima riguarda la stessa produzione del libro all’interno del monastero: lo studio delle note tipografiche a margine relative agli orari di lavoro ha permesso di definire l’immagine di una tipografia piuttosto pigra. Mezza giornata per comporre una forma (una pagina) e ben 32 giorni per fare un quinterno (dieci pagine) descrivono ritmi troppo blandi persino per i primi tipografi. Quando Sweynheim e Pannartz, i proto-tipografi attivi a Subiaco, si trasferiscono a Roma, il ritmo di stampa diventa molto più intenso. Incrociando questa constatazione con altri raffronti, tra cui quelli con le lettere del vescovo-editore Giovanni Andrea Bussi e del monaco Benedetto Zwink di Ettal (1471), Miglio giunge alla plausibile conclusione che i monaci stessi, deposta la penna nello scriptorium, si trasformarono in operai tipografici per concludere autonomamente la stampa del De Civitate Dei, ultima impresa editoriale sublacense avviata da Sweynheim e Pannartz. Operai distratti da numerose altre incombenze, che li portarono ad adottare un ritmo discontinuo nella produzione dell’opera.

Adottando invece la lente filologica, il discorso sul De Civitate Dei assume contorni estremamente affascinanti, sebbene sconfinati. Il grosso lavoro di revisione filologica che traspare dalle note manoscritte e la sua precisa corrispondenza nella versione stampata, lascia intendere che il primo sia stato realizzato espressamente come “master” per la stampa dell’editio princeps. E, insieme ad altri indizi, tanta attenzione al dettaglio dei contenuti dell’opera permette a Miglio di affermare la grande preoccupazione filologica che ha caratterizzato la stampa del testo, figlia (forse) della consapevolezza che da allora in poi un libro sarebbe diventato trecento libri, un errore trecento errori e un pensiero mal trasmesso trecento pensieri mal trasmessi. È il germe, persino l’emblema forse, dell’umanesimo tragico di cui parla Massimo Cacciari nel suo recente La mente inquieta, libro in cui il filosofo traccia il ritratto di un’epoca tutt’altro che armonica, in cui filologia, filosofia e teologia si intrecciano in un rapporto difficile da districare.

Per una coincidenza storica, i sei mesi di vacanza a Londra del De Civitate Dei corrispondono ai primi sei mesi dall’ufficializzazione della Brexit e così la notizia dell’evento si è incrociata con lo sguaiato “no more” proclamato a più riprese da Nigel Farage al Parlamento Europeo. Senza entrare nel merito, ci piace pensare che le parole scritte da Agostino nel V secolo e riprese dai tipografi umanisti nel XV secolo sappiano incontrare anche gli uomini del XXI secolo con il loro messaggio di pace e di unità.

Dunque questa città celeste, finché è pellegrina sulla terra, chiama cittadini da tutte le nazioni, e raccoglie questa società pellegrina tra tutte le lingue, senza avere il problema della diversità dei costumi, delle leggi, delle istituzioni con le quali si istituisce o si mantiene la pace terrena, senza abrogare o distruggere niente di esse, ma anzi accettando e seguendo tutto ciò che, sebbene diverso nelle diverse nazioni, tuttavia tende all’unico e medesimo fine della pace terrena, purché ciò non costituisca un ostacolo per la fede.

De Civitate Dei – Libro XIX

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