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A VIZZINI UNA MOSTRA SUL KODAKISSIMO VERGA

La segreta mania è il titolo della mostra delle fotografie scattate da Giovanni Verga tra il 1879 e il 1911. Che il verismo sia stato un movimento “fotoletterario”?

Lo sapevate che Giovanni Verga, quello della Cavalleria Rusticana, i Malavoglia e quel maledetto carico di lupini disperso in mare, ha coltivato per oltre trent’anni la passione per la fotografia? Beh, che ne foste o meno consapevoli, dal 20 marzo potete approfondire l’argomento recandovi a Vizzini (Catania), dove apre i battenti una mostra dal titolo La segreta mania – Giovanni Verga fotografo. L’evento sarà l’occasione per osservare dal vivo cento delle 448 immagini prodotte dallo scrittore tra il 1878 e il 1911, scoperte nel 1966 da Giovanni Garra Agosta e oggi custodite dalla Fondazione 3M.

Il fatto che Giovanni Verga avesse una passione fotografica mi ha colto piuttosto di sorpresa. Giuro che la mia antologia di italiano non ne faceva menzione, e infatti ha permesso che nel mio immaginario si cristallizzasse l’immagine austera di un Giovanni Verga molto baffuto e molto triste. A onor del vero non è che le sue fotografie contribuiscano troppo a scardinare questa immagine, ma almeno un poco la mitigano: va bene gli innumerevoli scatti effettuati nei confronti dei contadini siciliani privi di alcuna speranza di riscatto, ma almeno qua e là compaiono immagini del Verga turista che se ne va in Lombardia a fotografare Como, la Valtellina, la Svizzera e così via. Sto ancora cercando una foto in cui sorrida, ma capisco che dietro quei mustacchi imprescrutabili potrebbe nascondersi senza problemi persino una grassa risata.

Ho letto due cose molto belle sul Verga fotografo. La prima è una frase tratta dallo scambio epistolare tra due suoi amici, in cui uno comunica all’altro che «Verga kodakeggia più che mai». Un autentico slogan (persino migliore di quel “ciribiribì Kodak” di televisiva memoria) che descrive bene il livello di interessamento dello scrittore al mezzo tecnico, e a cui immagino Verga abbia reagito con un compiaciuto fremito di baffi. Grazie alle raccolte epistolari conosciamo molti dettagli della sua attività fotografica. Sappiamo che lo scrittore aveva maturato l’interesse per la fotografia grazie all’amico Luigi Capuana, altro autore siciliano verista ed ecletticissimo, che aveva avuto la fortuna di trascorrere qualche tempo a Firenze negli anni sessanta, giusto nel periodo in cui i fratelli Alinari stavano mettendo su la loro impresa fotografica. Capuana aveva preso la cosa molto sul serio e si era dotato di tutto il necessario per stampare le immagini, al punto da arrivare ad essere considerato un fotografo semi-professionista. La fotografia catalizza l’attenzione di molti scrittori contemporanei, ed è emblematico che la Kodak Pocket mod. 96 oggetto della frase sopracitata (praticamente una scatola da scarpe con un rullino 4×5 dentro) fosse stata regalata nel 1867 a Giovanni Verga da un altro amico letterato, il poeta romano Cesare Pascarella.

La seconda cosa interessante che ho scoperto, grazie all’ottimo articolo di Ignazio Burgio è che Verga scrive per lo più in bianco e nero. È proprio un fatto statistico: soprattutto nelle sue opere più realiste, lo scrittore utilizza davvero poco i colori. Le sue pagine, anche le descrizioni più dettagliate, sembrano come desaturate. È soprattutto da questa constatazione che nascono le ipotesi circa il legame tra i suoi scritti e le sue immagini. Lo stesso Burgio si chiede se non si tratti di una tecnica per alimentare l’impersonalità tipica del verismo, quel distacco emotivo rispetto a quanto narrato che rappresenta una cifra stilistica dell’intera corrente. E si chiede anche se questo non sia da riconnettere alla pratica fotografica. La fotografia era in grado di produrre infatti un’astrazione dalla realtà composta da una analogia con il reale, la riproduzione della forma, e un qualcosa di irreale, ovvero l’inevitabile bianco e nero. La riproduzione dei colori, nella fotografia come nella letteratura, sarebbe dunque il veicolo della compartecipazione emotiva dell’autore alla scena rappresentata.

La riflessione che ne scaturisce è piuttosto complessa Viene prima l’immagine o la scrittura? Oppure i due linguaggi si influenzano solo marginalmente? E se l’uno fosse in continuità con l’altro? Ok, capisco che possa sembrare un ragionamento sul sesso degli angeli: alla fine quando leggiamo I Malavoglia non abbiamo bisogno di altro se non delle parole per apprezzare l’opera. Però l’indagine sul processo di creazione resta un territorio suggestivo e solo parzialmente esplorato che, se nulla aggiunge alla poetica, potrebbe tuttavia valorizzare notevolmente la portata innovatrice dell’autore. E potremmo così rileggere sotto una diversa prospettiva la produzione verista, più vicina alla cinematografia neorealista e alla crossmedialità di quanto la nostra antologia di scuola ci permettesse di immaginare.

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