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CROSSROADS – LA PERENNE ATTUALITÀ DI PICCOLE DONNE

Cinema, televisione, animazione… Il best seller di Louisa May Alcott sembra non smettere mai di suggestionare il pubblico e gli autori. Proviamo a indagare cosa si cela dietro una storia che è molto più di un ottocentesco melodramma di femminucce…

Il fatto di imbattermi di nuovo nelle sorelle March, indomite protagoniste di quell’epica proto-femminista che risponde al nome di Piccole Donne, era qualcosa che non avevo messo in conto. Non che abbia una cattiva considerazione dell’opera, anzi. Sono affezionato ad un libro che lessi da bambino, quando entrò in casa insieme a Zanna Bianca grazie alla prima uscita di una dozzinale collana di letteratura per ragazzi che pretendeva di sigillare in un doppio blister le differenze di genere. Ai maschietti i lupi, alle femminucce la crinolina. A sette/otto anni leggevo qualsiasi cosa mi si mettesse davanti, per cui non mi feci troppi problemi a sintetizzare in un unico immaginario letterario la natura crudele della frontiera americana e i tormenti sentimentali del New England, i rudi cacciatori d’oro e le probissime ragazze March.

Dopo oltre trent’anni, dicevo, le vicende della famiglia March sono tornate a solleticare il mio interesse senza blister ma grazie alla loro ultima trasposizione cinematografica, un film in costume che in realtà non avrei preso troppo in considerazione (come tutti i film in costume) se non fosse stato per via di quel sontuoso esercito pangenerazionale di attrici e attori che vi hanno preso parte e che non citerò per non tediarvi. Ok, vi dico solo che questo film, realizzato nel 2019 dalla regista e sceneggiatrice Greta Gerwig, c’è gente tipo Meryl Streep, Emma Watson e Timothée Chalamet, più la splendida Saoirse Ronan, che spero bene per voi non sia un nome sconosciuto.

Cast a parte, il film mi ha preso per mano fin dall’inizio proprio per il suo marcato strizzare l’occhio alla dimensione editoriale. Piccole Donne non è un film tratto da un libro, ma un film tratto da un libro che racconta un libro. La figura di Jo March, protagonista del libro e alter ego dell’autrice Louisa May Alcott, diventa qui la chiave per una continua sovrapposizione di piani. Lei condensa l’appassionata autrice di Piccole Donne ma anche la persona che ha vissuto in prima persona le vicende narrate. Così, se nell’arco di tutto il film realtà biografica e finzione narrativa giocano a rimpiattino, sullo sfondo si staglia una vicenda particolarmente realistica: la genesi dell’opera editoriale. Emblematico il fatto che il film piazzi all’inizio e alla fine proprio Jo alle prese con il mercato editoriale del suo tempo, mettendo in scena il rapporto con il suo editore. All’inizio la ragazza cerca di vendere i propri racconti fingendoli scritti da un uomo, alla fine è nello stesso ufficio a negoziare la cessione dei diritti di un libro destinato a diventare uno dei maggiori bestseller di tutti i tempi. Nel mondo reale era il 1868 quando la casa editrice Roberts Brothers di Boston decise di pubblicare l’opera di Louisa May Alcott, che sbarcherà nel Vecchio Continente ben più tardi, anche perché la prima edizione utilizzava un american idiom di difficile traduzione. 

Al di là del successo editoriale, il dato che colpisce di Piccole Donne è il numero e la frequenza dei suoi adattamenti: se ne contano almeno otto tra film, serie e cartoni animati, realizzati con cadenza quasi regolare nel corso di un secolo (ovvero all’incirca da quando l’opera diventò un successo planetario). Praticamente ogni dieci anni viene fuori una nuova trasposizione di Piccole Donne. Per questo una domanda fa capolino nella mia testa: cosa rende questa opera perennemente attuale, pur essendo così tanto contestualizzata dal punto di vista storico e geografico?

La risposta più istintiva, superficiale come tutte le risposte istintive, si focalizza sulla capacità delle protagoniste di rappresentare un paradigma di femminilità inevitabilmente sempre contemporaneo grazie alla sua sfaccettata molteplicità. Semplificando molto, sappiamo che Meg si realizza nel matrimonio d’amore e in una vita non agiata, Amy persegue il successo nell’arte ma non disdegna la ricchezza materiale, Jo è indomita araldo di indipendenza femminile fondata sulla passione letteraria, Beth… beh, Beth ottiene il suo più grande successo facendo commuovere Joey Tribbiani nella terza stagione di Friends. Insomma, sarebbe scontato pensare che le spettatrici di ieri e di oggi riescano facilmente a riconoscersi in una di loro. Mia moglie ad esempio ha tifato Jo come fosse Grifondoro, ma non escluderei che oggi molte ragazze giovanissime siano portate ad immedesimarsi in Amy (anche perché nel film sposa Tymothée Chalamet e non quel magnaranocchie di Louis Garrel).

Questa risposta tuttavia non mi ha soddisfatto del tutto, e allora ho intrapreso una piccola ricerca su Louisa May Alcott che mi ha condotto a Concord, in Massachusets, e più precisamente a Orchard House, la vera residenza della famiglia Alcott in cui peraltro è ambientato anche il film della Gerwig. In quel luogo così american british ho incontrato virtualmente mrs. Turnquist, la simpatica e piuttosto eccentrica direttrice del museo, protagonista di un video che per 9,90$ ti fa entrare nell’edificio e conoscere TUTTI i cimeli di famiglia. TUTTI. Ora: non farò la recensione della visita virtuale perché sennò entriamo in un loop di recensioni annidate da cui non si esce. Però ho trovato molte cose interessanti da condividere. Requisito di base è tener presente che la famiglia Alcott è davvero la famiglia March. Piccole Donne non è un’opera di ispirazione autobiografica: è per larga parte la vera storia della famiglia Alcott. Anche loro recitavano in casa drammi autoprodotti, May/Amy era davvero un’ottima artista figurativa, Beth/Beth muore giovanissima anche nella vita reale, tutta la famiglia aveva effettivamente aderito alla causa abolizionista, e così via.

L’elemento che emerge con particolare vigore è però la figura del padre di Loiusa: mr. Amos Bronson Alcott. Un signore decisamente più brutto e più anziano di Bob Odenkirk ma molto più centrale nella formazione morale e ideologica delle sorelle March/Alcott. Mr. Alcott era nato nel 1799 in una famiglia molto povera, ed era riuscito da solo a riscattare la propria condizione sociale di partenza conquistandosi una profonda cultura, tale da permettergli di diventare un “educatore progressista” nonché il leader dei trascendentalisti. Se vi siete chiesti cosa sia il trascendentalismo, non vi preoccupate: me lo sono chiesto pure io.

Il trascendentalismo è stato un movimento di pensiero sviluppatosi negli anni ’30 dell’ottocento in New England. I pensatori che si riconoscevano in questa corrente credevano nell’innata bontà dell’uomo, nella sua capacità di intuire e nel ruolo fondamentale della natura per avvicinarsi a Dio. Erano un po’ fricchettoni dell’ottocento, a dirla tutta, ma non per questo degli sprovveduti. Ecco che casa Orchard era diventata negli anni una sorta di cenacolo, frequentato abitualmente da gente come Henry David Thoreau, Ralph Waldo Emerson e Nathaniel Hawthorne, ovvero i massimi esponenti letterari di questa corrente. Rispetto ai celebri amici, la peculiarità di mr. Alcott è stata prima di tutto quella di raggiungere una minor fama. Ingiustamente. Fu lui a declinare il pensiero trascendentalista in una pratica pedagogica. Egli era convinto che la conoscenza e la guida morale fossero insite nel bambino e che il compito dell’educatore fosse quello di lasciarle emergere. Per questo introdusse nelle scuole lo studio dell’arte, della musica, della natura e persino l’educazione fisica. Nonostante le importanti – e spesso incomprese – innovazioni scolastiche, la pedagogia di mr. Alcott non si risolveva nella scuola ma si completava nell’educazione sociale e spirituale a cui solo la famiglia era in grado di provvedere. Solo la vita familiare era considerata in grado di instillare l’autosufficienza e il senso del sacrificio, uniti agli ideali di compassione e carità. Ma anche l’incitamento all’espressione di sé e dei propri sentimenti.

Ecco allora che forse, in fondo, ciò che fa sembrare Piccole Donne un’opera sempre al passo coi tempi, nonostante le gonne di taffetà e la guerra civile, è quell’impianto ideologico di cui è figlia e che la sostiene. Lo stesso modo di pensare che pervade – in misura diversa – l’intera cultura americana e larga parte della sua produzione culturale. Per intenderci, Thoreau è esplicitamente citato in opere come L’Attimo fuggente o Into the wild e implicitamente il pensiero trascendentalista si può rilevare in tantissime opere, da The tree of life di Terrence Malick a Hereafter di Clint Eastwood. Fino a quel recentissimo fuoco pirotecnico che è l’ultimo Avatar, dove i temi del rapporto uomo/natura e della famiglia come entità educativa sono i veri assi portanti dell’intero plot. Letta nella vasta e affascinante galassia delle opere di matrice trascendentalista, ecco che Piccole Donne assume tutta una nuova dignità sociale e politica, fino a poter essere definita vero e proprio prototipo di un intero filone dell’industria culturale statunitense. Un’opera di cui è impossibile negare la perenne attualità.

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