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EDITORIA

LA MATITA DELLA NATURA E L’ORGOGLIO INGLESE

Storia di un nobiluomo e di un’invenzione epocale sullo sfondo della rivalità tra inglesi e francesi.

Mettetevi nei suoi panni. A un certo punto realizzi che il tuo sogno di diventare un grande paesaggista del XIX secolo non è compatibile con la tua oggettiva incapacità artistica. Te ne sei accorto nel 1833, quando sul Lago di Como non riuscivi a disegnare il paesaggio neanche aiutato dalla camera oscura. Allora ti metti a studiare come un pazzo: fisica, matematica, ottica. Ti fai aiutare dal tuo amico nerd con la faccia da pazzo (che però di chimica ne sa a pacchi) e alla fine, quando sei sul punto di annunciare al mondo di aver inventato – udite udite – la fotografia… sbem! Arrivano un paio di francesi e annunciano di aver inventato la fotografia. Livello di rosicamento? 100? 1000? Eppure tu non ti arrendi: spieghi al mondo che in fondo il dagherrotipo (che poi che nome sarà mai “dagherrotipo”?) – è poco utile, che è fragile e, soprattutto, non permette la riproducibilità delle immagini. Tutta un’altra faccenda rispetto alla calotipia. Già il nome. Calotipia, congiunzione delle parole greche kalos (bello) e typos (stampa). E poi quella proprietà straordinaria di riprodurre le immagini partendo da un negativo… Davvero tutta un’altra storia. E invece cosa risponde il pubblico borghese dell’epoca? Che il dagherrotipo è più nitido. E che attravero la sua irriproducibilità mantiene l’aura dell’opera d’arte. Senza contare che viene custodito in raffinatissimi cofanetti, davvero tres chic. Al contrario le sue calotipie sono così poco chiare, fumose… e che ce ne importa in fondo se sono riproducibili o meno?
Ora, chiunque altro a questo punto sarebbe impazzito di rabbia e avrebbe finito i suoi giorni in un manicomio, sognando di fare una calotipia dei cadaveri di Daguerre e Niepce. Chiunque ma non William Henry Fox Talbot, che reagisce con britannica compostezza e fiera intraprendenza: non potendo essere annoverato come l’inventore della fotografia, decide di essere almeno l’inventore del libro di fotografie.

Nel 1844, esattamente 175 anni fa, Talbot si affida alla casa editrice londinese Longman, Brown, Green & Longmans (casa editrice attiva dalla fine del ‘700, oggi Pearson Longman) per dare alle stampe The Pencil of Nature, pietra miliare nella storia dell’editoria. L’idea di Talbot era davvero ambiziosa: spiegare a tutti le potenzialità espressive, linguistiche, scientifiche e tecniche del nuovo mezzo fotografico nella sua declinazione “calotipica”. Voleva sorprendere, Talbot, sorprendere e divulgare. Mostrare al mondo che il suo procedimento era davvero la matita con cui la natura esprimeva sé stessa su un supporto fotosensibile. Per farlo aveva pensato di raccogliere 5 immagini per ogni mese dell’anno, per un totale di 60 immagini. Ma dovette ripiegare su un numero più esiguo: nel 1846 l’interesse del pubblico iniziava a diminuire mentre lo sforzo realizzativo restava lo stesso. Alla fine il progetto si assestò sulle 24 immagini (stampate, ritagliate e incollate a mano una a una), corredate da altrettanti testi esplicativi e da una lunga, onesta introduzione con cui l’autore ripercorreva dieci anni di conquiste e insuccessi.
Pur non essendo quelle di Salgado o di Giacomelli, le immagini di Talbot hanno ancora oggi qualcosa di commovente. Una scopa di saggina, un merletto, un busto in marmo… c’è persino la riproduzione di un antico testo stampato, come a voler annunciare con un secolo di anticipo l’invenzione dello scanner o della fotocopiatrice. Fin dalla scelta del titolo Talbot cerca forsennatamente di spiegare a cosa serve la riproduzione dal vero, nelle scienze come nell’arte. Addirittura inserisce in ogni copia un foglietto con su scritto che – a scanso di equivoci – quelle non sono incisioni, ma immagini di cui la natura stessa è autrice. Vuole che la calotipia raggiunga le masse, non resti racchiusa nei cofanetti dei dagherrotipi, e che le masse ne comprendano a fondo l’importanza. Qualcuno comprese. Nella sua recensione un critico dell’epoca parlò di The Pencil of Nature come di una meravigliosa illustrazione della moderna necromanzia, sorprendendosi del fatto che poteva ammirare il tramonto – il tramonto vero, reale – di una settimana prima e tramandarlo ai posteri. Quello che ancora non aveva provocato il suo stupore era l’idea che la riproducibilità tecnica delle immagini avrebbe impresso un tratto distintivo all’intera civiltà umana.

N.B.: Se volete curiosare tra le pagine del libro, potete farlo gratuitamente scaricando la versione digitalizzata di The Pencil of Nature messa a disposizione dal Progetto Gutenberg.

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