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EDITORIA

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CINQUE RELAZIONI
PER (RI)CONOSCERE CALVINO

Cento anni fa nasceva Italo Calvino, uno dei più grandi italiani del Novecento. Vi proponiamo una passeggiata nella sua biografia attraverso i suoi legami con altri cinque grandi della cultura, italiana e non.

Tra le ricorrenze di questo 2023, il centenario della nascita di Italo Calvino è una di quelle che non avremmo mai potuto mancare. Il problema è che Calvino non è stato solo un grande scrittore, ma un intellettuale difficile da inquadrare nella sua complessità. Proprio come il periodo storico che ha attraversato. Per questo vi proponiamo un suo caleidoscopico ritratto, composto attraverso il rapporto che lo ha legato a cinque grandi della cultura, italiana e internazionale. Buona lettura e… Buon compleanno, Calvino!

Calvino e Pavese

Nel 1945 Calvino ha 22 anni e, facendo la spola tra Sanremo, Milano e Torino, prende a frequentare le redazioni del Politecnico e dell’Unità (dove inizia la sua attività redazionale), ma soprattutto conosce Giulio Einaudi. L’editore ha molta fiducia in lui, anche se ne rileva soprattutto le qualità oggi meno note:

A quel tempo Giulio s’era fatta di me l’idea che io fossi dotato anche per le attività pratiche, organizzative, economiche, cioè che appartenessi al nuovo tipo d’intellettuale che egli cercava di suscitare; del resto Giulio ha sempre avuto il dono di riuscire a far fare alle persone delle cose che essi non sapevano di saper fare.

[Album Calvino]

Insomma: per quindici anni circa Calvino scrive risvolti e quarte di copertina, redazionali e lanci di libri altrui. Ma ha la fortuna di vivere ambienti intellettualmente vivacissimi, frequentati da gente del calibro di Elio Vittorini, Natalia Ginzburg e, soprattutto, Cesare Pavese. Proprio quest’ultimo si dimostrerà un vero e proprio mentore del giovane autore, intuendone immediatamente il talento e incoraggiando la pubblicazione sull’Unità dei racconti che confluiranno nel suo primo libro: Ultimo viene il corvo. Ma anche incoraggiando la stesura del suo primo romanzo, Il sentiero dei nidi di ragno, di cui redigerà la celebre recensione che definisce Calvino “scoiattolo della penna”. È ancora Pavese a convincerlo a lasciare l’Unità per entrare stabilmente (full-time, diremmo oggi), nella casa editrice di Torino. Il loro rapporto si interromperà bruscamente nel 1950, come noto, a causa di una attrice americana e troppi barbiturici.
Calvino compone un ritratto postumo di Pavese, recentemente pubblicato su Repubblica, che lascia affiorare i tratti esistenziali insieme al clima intellettuale di un’epoca irripetibile.

Calvino e Monicelli

È piuttosto noto che l’idea alla base de I soliti ignoti, film iconico di Mario Monicelli, deriva da un racconto (molto divertente) di Calvino, Furto in una pasticceria, contenuto nella raccolta Ultimo viene il corvo. Più sorprendente è sapere che Monicelli, che aveva conosciuto Calvino grazie a Suso Cecchi d’Amico, aveva chiesto allo scrittore di realizzare con lui un film su Marco Polo e sul suo viaggio Venezia-Pechino. Il film non verrà mai realizzato, ma le cinquanta pagine di soggetto di questa idea cinematografica diventeranno il nucleo originario de Le città invisibili, tra i vertici della produzione calviniana.
Un’ulteriore curiosità: sembra che il progetto cinematografico si sia interrotto quando De Laurentiis incassò il rifiuto di Hemingway, tra gli scrittori più amati dallo stesso Calvino, che era stato designato come voce narrante dell’opera.

Calvino e Perec (ma anche Queneau)

Calvino nasce a Cuba, vive a lungo in Italia e quindi per una dozzina di anni in Francia, senza rancore. Dal 1967 vive a Parigi, dove attinge ad un clima culturale condizionato dalla nascita di nuove discipline di studio: conoscerà Roland Barthes e coltiverà una proficua amicizia con scrittori quali Raymond Queneau e George Perec. Con loro fa parte del gruppo OuLiPo (Ouvroir de Littérature Potentielle, ovvero “officina di letteratura potenziale“), aderendo ad una concezione nettamente più sperimentale (e giocosa) della letteratura. Il gruppo sostiene infatti il primato della struttura e dello schema rispetto alla semantica, e adotta la matematica come vero e proprio strumento di scrittura. E pensare che io scrivevo perché odiavo la matematica.
La prematura morte di Perec segna Calvino, che componendo il necrologio per l’amico, traccia le caratteristiche stesse della scrittura OuLiPo:

Per sfuggire all’arbitrarietà dell’esistenza, Perec ha bisogno di imporsi delle regole rigorose (anche se queste regole sono a loro volta arbitrarie). Ma il miracolo è che questa poetica che si direbbe artificiosa e meccanica dà come risultato una libertà e una ricchezza d’inventiva inesauribili.

Nascerà da questa esperienza il ciclo di romanzi basati sulla logica combinatoria: Le città invisibili, Il castello dei destini incrociati e Se una notte d’inverno un viaggiatore, pubblicati tra il 1972 e il 1979, anno del rientro in Italia.

Calvino e Borges

Calvino è una sentinella dei grandi cambiamenti che investono la società italiana negli anni del boom economico. Avverte e affronta precocemente il caos prodotto dalla società dei consumi, le trasformazioni dei tessuti urbani e l’impatto dell’industrializzazione. La società italiana entrava in una fase nuova, articolata e complicata, che l’autore aveva assimilato ad un labirinto. Cosa fare, allora, precipitati in mezzo al labirinto? Indagare. Osservare. Utilizzare la cultura come strumento di dialogo con la complessità del presente. Questa la tesi – sempre attuale – che Calvino esprime nel saggio La sfida al labirinto, apparso nel 1962 nel 5° numero dei Menabò di Einaudi. La sfida del labirinto, della contemporaneità come della stessa esistenza umana, non è quella di trovare velocemente l’uscita, ma di viverne pienamente l’esperienza.

Nella spinta a cercare la via d’uscita c’è sempre anche una parte d’amore per i labirinti in sé; e il gioco di perdersi nei labirinti che fa parte anche di un certo accanimento a trovare le vie d’uscita.

Un po’ per via di questa fascinazione verso il labirinto, un po’ per i rispettivi universi immaginifici, fatti di miti e personaggi fantastici sorretti da una articolata simbologia, si capisce che Italo Calvino non avrebbe potuto ignorare Jorge Luis Borges. E infatti sappiamo che l’autore italiano nutrì grande stima per l’argentino, che definiva “l’ultimo grande mostro sacro della letteratura mondiale”. I due si incontreranno più volte, tra cui a Siviglia nel 1984, nell’ambito di un convegno sulla letteratura fantastica. È Chichita, moglie di Calvino, a comunicare a Borges, ormai anziano e cieco, la presenza del marito tra le persone intervenute per salutarlo. «L’ho riconosciuto dal silenzio», le risponderà Borges.

Calvino e Pasolini

Tra tutti, il rapporto tra Calvino e Pasolini è forse quello più emblematico del clima intellettuale di un’epoca e della disgregazione di un ideale politico comune. Quasi coetanei, entrambi giovani aderenti al Partito Comunista, i due sembrano formare le rive opposte (anche geograficamente, dalla Liguria al Friuli) di un medesimo fiume intellettuale e politico.
Nel 1973 Pasolini viene aspramente – e pubblicamente – criticato da una larga parte degli intellettuali di partito, che arrivano ad accusarlo di neofascismo (cfr. per approfondire l’approfondito articolo di Città Pasolini). Il motivo risiede nel tenore di certi scritti di Pasolini, venati di nostalgia nei confronti di una Italia contadina e rurale opposta alla società dei consumi, figlia del boom economico. La mitizzazione delle masse contadine del passato non piace affatto ad un partito che mostra una fede cieca nello sviluppo fondato su ideali laici e progressisti, incompatibili con una visione considerata reazionaria.
In quello che assume i contorni di un vero e proprio tiro al piccione si inserisce anche lo stesso Calvino che, in un’intervista concessa al Messaggero nel 1974, contesta allo scrittore friulano

il rimpianto di Pasolini per la sua Italietta contadina […]. Questa critica del presente che si volta indietro non porta a niente […]. Quei valori dell’Italietta contadina e paleocapitalistica comportavano aspetti detestabili per noi che la vivevamo in condizioni in qualche modo privilegiate; figuriamoci cos’erano per milioni di persone che erano contadini davvero e ne portavano tutto il peso. È strano dire queste cose in polemica con Pasolini, che le sa benissimo, ma lui […] ha finito per idealizzare un’immagine della nostra società che, se possiamo rallegrarci di qualche cosa, è di aver contribuito poco o tanto a farla scomparire.

Pasolini non ci sta e replica a sua volta le ragioni del rimpianto verso un universo contadino pre-industriale e persino pre-nazionale. Un rimpianto che, sostiene PPP, non toglie lucidità alla visione dell’Italia contemporanea, la cui società gli appare viziata dall’ansiosa volontà di uniformarsi ad un pensiero unico. L’Italia rimpianta, insomma, è per lo scrittore friulano quella in cui nessuno era costretto a tradire la propria cultura per aderire all’unica classe sociale emergente, quel moloch individuato nell’incipiente società dei consumi.

Il dibattito è infuocato e si protrae per anni, raggiungendo forse il culmine nel 1975, quando Calvino e Pasolini si scontrano sul medesimo tema a causa di un fatto di cronaca apparentemente estraneo ad un’interpretazione ideologica: il massacro del Circeo (cfr. l’interessante post di Roberta Errico su The Vision). Tre ragazzi borghesi hanno seviziato due ragazze di borgata, finendo per ucciderne una. Calvino sul Corriere della Sera esprime sgomento nei confronti di una classe borghese intrisa dell’illusione che tutto le sia permesso. Pasolini lo attacca, sostenendo che stia utilizzando quel fatto di cronaca per avvalorare un’interpretazione manichea delle classi sociali. Il delitto del Circeo è invece per Pasolini il segno di una società ormai integralmente corrotta dai moderni modi di produzione: non esistono più le classi sociali di cui parla Calvino, ma un unico modello di valori consumista a cui tutti, trasversalmente, ambiscono.
Questo infuocato dibattito oggi lo viviamo come il litigio tra mamma e papà: impossibile prendere le parti di uno dei due. Ci consola sapere che, dal carteggio privato tra gli scrittori, emerge una grande stima reciproca, incrinata soltanto dal 1973. Quando Pasolini diventa il bersaglio preferito dell’intellighenzia comunista.

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