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EDITORIA

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DUMMY QUEL LIBRO,
TI DIRÒ CHI SEI

Rispetto alla fotografia, il libro è solo un supporto? E le foto di un libro fotografico hanno ragione di esistere senza libro? Qualche risposta concreta a domande marzulliane.

Sarà un’impressione di chi scrive, ma da qualche anno l’editoria fotografica sembra in costante crescita. Premetto di non essere riuscito ad individuare dati sufficientemente dettagliati per poterlo dimostrare, ma la sensazione è che nelle librerie la sezione dedicata ai libri di fotografia si presenti sempre più ricca. Non sarebbe un fatto sconvolgente, intendiamoci: questa nicchia (ammesso che possa ancora essere definita tale) vanta case editrici di tutto rispetto, che hanno contribuito in maniera determinante a tale ricchezza di offerta. Phaidon, Taschen e Roberto Koch Editore (quello dei libri Contrasto, per capirci) dettano la strada. Ma anche Einaudi, all’interno della sua collana Piccola Biblioteca, offre numerose proposte editoriali dedicate alla storia e alla teoria fotografica. Il resto della produzione è affidata ad un consistente numero di case editrici indipendenti, che vivacizzano un’offerta già di per sé variegata.

Non sembra pretestuoso ipotizzare che la fortuna dei libri fotografici risieda almeno parzialmente in un elemento già individuato a proposito della storia (e del successo) di Taschen. Parliamo del fatto che la fotografia è un linguaggio pressoché universale e sostanzialmente trasversale rispetto alle capacità di lettura del pubblico. Possiamo leggere un’immagine su un piano tecnico o semiotico, ma possiamo anche limitarci a valutare la mera gratificazione estetica che la sua esposizione provoca in noi. Insomma: un libro di fotografia è potenzialmente un testo facile, democratico e persino inoffensivo. Tuttavia proprio dai meandri più remoti dell’editoria fotografica indipendente emergono delle sperimentazioni che portano il libro fotografico verso qualcosa che è oltre il libro e oltre l’immagine. Si tratta di oggetti che trascendono dunque la natura stessa del libro fotografico, dirigendosi verso un corpus testuale che è molto di più di un insieme di fogli su cui vengono stampate delle immagini.

In inglese dummy vuol dire “manichino”, “fantoccio”, in un’interessante accezione allargata che comprende il concetto di simulazione, di morte, di stupido e di fasullo. In fotografia un photo dummy è un insieme di immagini trasformato in un oggetto stampato il cui livello peritestuale (il formato, la grafica, il font, etc.) assume un ruolo integrato e determinante nell’espressione del suo significato complessivo. Troppo tecnico? Nessun problema: ho un ottimo esempio utile a capire meglio di cosa parliamo.

Il primo photo dummy ha un titolo bellissimo, preso in prestito dal poeta americano Theodore Roethke: Deep in their roots, all flowers keep the light (“Nel profondo delle loro radici, tutti i fiori custodiscono la luce”). L’autrice si chiama Anna Maria Antoinette D’Addario ed è un’artista italo-australiana che si definisce esploratrice di nuove forme di storytelling. Nel 2015 Anna si trova ad affrontare l’omicidio della sorella a cui era più legata e come risposta al dolore decide di coltivare questo progetto. Inizia a mettere insieme immagini di famiglia, pagine di diario, ritagli di giornale, paesaggi e riflessioni per confezionare infine un mosaico della memoria che del libro ha solo l’aspetto superficiale. Ogni elemento di questo testo è significante: la fotografia, certo, sia quella fatta che quella recuperata e replicata in molteplici varianti. Ma anche la calligrafia, il colore della carta, le citazioni, il collage, le pagine semitrasparenti e quelle strappate ai bordi. Tutto contribuisce alla creazione di un percorso che, attraverso il dolore della perdita, conduce verso il recupero di un rinnovato e consapevole equilibrio. Ho potuto sfogliare il testo, edito dall’italiana Ceiba, in occasione dell’ultimo Photolux (dove l’autrice ha vinto il PhotoBoox Award 2019) e l’ho trovato davvero coinvolgente. Ogni elemento converge nell’espressione dello stato d’animo dell’autrice, dando vita ad uno dei più fedeli e intimi autoritratti che abbia mai avuto l’occasione di incontrare.

Un altro testo, simile per molti versi a quello precedente, sancisce anche la nascita di un’intera casa editrice. Stavolta l’opera è di Massimiliano Tommaso Rezza, fotografo italiano classe 1967, a cui un giorno la vicina di casa ha regalato una cassetta di foto del suo defunto marito. Sì, personalmente avrei apprezzato di più un ciambellone. Il fotografo invece, dopo qualche tempo, comincia a osservare con attenzione quelle foto, che trova tutte sostanzialmente uguali. È l’immagine di Salvatore M., un uomo come tanti che si fa ritrarre ripetutamente in pose sempre uguali, sempre molto ordinate e ordinarie, da cui traspare solo il suo bisogno di affermazione di status. Fatta eccezione per due immagini appena in cui compare il solo elemento di disturbo, la variabile che altera l’equilibrio di Salvatore: sua moglie. Queste immagini sono oggi riunite nel libro Un certo Salvatore M., opera prima di Pneumatica, la casa editrice fondata dallo stesso Rezza. In questo caso non è propriamente corretto parlare di photo dummy: la forma libro è più rispettata. Però qualcosa unisce le due opere citate, e non si tratta del tributo alla memoria di una persona scomparsa. Anche Salvatore M. è un’opera in cui le immagini e le pagine che le ospitano formano un insieme significante e non distinguibile: non è un libro di fotografia ma un’opera fotografica tout-court. Anche qui il libro non è un contenitore di immagini ma la forma ideata e ideale per condurre un’indagine introspettiva o sociale, per originare domande che riguardano ciascuno di noi. Esattamente come accade davanti ad un’opera d’arte.

Un ulteriore elemento che accomuna le due esperienze è la condivisione del privato, l’indagine o la ricostruzione della sfera più intima di una persona: la sua personalità, i suoi stati d’animo. La D’Addario si espone in prima persona, raccontando il suo dolore e la sua rinascita. Rezza suggerisce il ritratto interiore di un uomo, che personalmente non conosce, attraverso la sola riproduzione della sua immagine. O meglio: attraverso la rappresentazione del bisogno di quell’uomo di affermare sé stesso utilizzando la propria immagine. In entrambi i casi, insomma, parliamo di testi che forse troveremo tra quelli di fotografia, ma che sarebbe forse più opportuno sistemare negli scaffali di narrativa, tra Joyce, Svevo e Čechov. Come i molti altri ipertesti simili che piccole e coraggiose case editrici propongono a quel pubblico deciso ad uscire di tanto in tanto dal pigro sfogliare un libro di fotografie.

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