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EDITORIA

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TERRA MATTA, LA VITA STRAORDINARIA
DI UN UOMO ORDINARIO

Vincenzo Rabito, ragazzo del 1899, ci ha lasciato una preziosa eredità: un libro di memorie che attraversa il secolo breve in soggettiva. Un testo potente o,  come è stato definito, il capolavoro che avete rischiato di non leggere mai.

Le case cantoniere hanno sempre esercitato un certo fascino sul mio sguardo. Relitti del passato al confine tra il luogo e il non-luogo, nella maggior parte dei casi abbandonati su quelle strade di cui un tempo erano custodi, sono i testimoni di un modo diverso di pensare ai territori e alla loro cura. Recentemente ho avuto l’idea di chiedere a Google come viveva un cantoniere, e Google mi ha risposto facendomi scoprire una storia davvero molto appassionante, quella di Vincenzo Rabito.

Chi è Vincenzo

Cantoniere (ma la definizione è davvero molto parziale), classe 1899, siciliano di Chiaramonte Gulfi. Vincenzo è un uomo semplice che ha passato la vita a barcamenarsi tra difficoltà ordinarie (la povertà, l’analfabetismo) e straordinarie (due guerre mondiali, la spagnola e una spedizione in africa, tanto per citarne qualcuna) del suo tempo. Rispetto ai suoi coetanei ha però una qualità che lo distingue: un gusto del raccontare che fa di lui il cantastorie della sua stessa vita ogni volta che si trova davanti un pubblico, che sia fatto di familiari, parenti o amici. D’altra parte, come dice egli stesso, se all’uomo in questa vita non ci incontro aventure, non ave niente darracontare. E viceversa, naturalmente. Tra le vicissitudini della sua esistenza, Vincenzo ha sorprendentemente trovato il tempo di prender moglie – con annessa suocera insopportabile – e mettere al mondo tre figli maschi. L’ultimo di questi, Giovanni, gli viene su un po’ fricchettone: è uno a cui piace scrivere poesie, fare viaggi in India e prendere parte a quella controcultura underground di cui Bologna è intrisa. Così, quando Giovanni si trasferisce nel capoluogo emiliano, alla fine degli anni ’60, papà Vincenzo – nel silenzio della sua stanza – decide di far propria l’Olivetti Lettera 22 lasciata dal figliolo. Per farne cosa? Ovvio: per trascrivere per filo e per segno la sua esistenza.

L’opera

Vincenzo Rabito è semi-analfabeta ma tremendamente ostinato: ogni volta che può si chiude in camera e, senza dire niente a nessuno, inizia a scrivere le sue memorie con una costanza da far impallidire Tolstoj. Il risultato di questa fatica letteraria (una vera fatica letteraria: provateci voi a scrivere senza saper scrivere) è un lunghissimo diario scritto in un dialetto siciliano appena addomesticato, che prende il nome di Fontanazza. Oltre mille pagine dattiloscritte senza interlinea né spazi, caratterizzate da una punteggiatura che potremmo definire “creativa”: sono esclusivamente i punti e virgola a separare ogni parola, originando un corpus integralmente paratattico che sembra ragionato per far sì che nessuna vicenda prevalga sull’altra. Le storie si susseguono ordinatamente nel tempo, come un continuo flusso di pensieri e ricordi coloratissimi e vividi, da cui traspare l’urgenza di un uomo qualunque (ma decisamente non ordinario) di tramandare il ricordo della sua vita. Magari un modo di fissare – o cercare – il senso stesso della sua esistenza. Fa sorridere il fatto che quando Vincenzo conclude il suo travagliato viaggio terreno, nel 1981, sua moglie abbia pensato bene di fare ordine in casa buttando via tutte le cose superflue lasciate dal marito. Tra cui – ovviamente – le sue memorie.

La pubblicazione

Sebbene lontano dalla originaria Sicilia, il figlio Giovanni aveva ben chiaro cosa stesse facendo suo padre. E ne aveva anche intuito molto presto il valora. Quell’opera unica nel suo genere, uno scritto autentico nei fatti e nel linguaggio, già dal 1971 viene proposta da Giovanni a intellettuali che orbitano intorno alle case editrici Rizzoli e Mondadori. È un nulla di fatto. Tutti riconoscono il valore di quei quaterni, ma nessuno crede che possano avere una collocazione editoriale. Giovanni Rabito, nell’interessante intervista di Enzo Fragapane su Diacritica, sostiene che negli anni ’70 il mercato editoriale fosse troppo polarizzato per un lavoro così “sperimentale” (qualcosa che poteva rappresentare un’espressione letteraria di art brut), visto che allora si pubblicavano solo due tipi di libri: i saggi per intellettuali e quelli marcatamente commerciali, in altre parole di genere. Le cose cambiano con il nuovo millennio, quello che Vincenzo non arriva a vedere. Nel 1999 il manoscritto viene inviato all’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano (Arezzo) e l’anno seguente vince il Premio Pieve, che lo porterà alla pubblicazione.
Grazie al supporto del Ministero per i Beni e le Attività culturali e della società Augustea, le memorie di Vincenzo Rabito nel 2007 diventano il libro Terra Matta pubblicato da Einaudi. È un successo: 40mila copie vendute e adattamenti che vanno dal teatro al cinema alla radio. L’ultimo in ordine cronologico è il reading di Mario Perrotta trasmesso lo scorso anno su RadioTre e oggi reperibile su YouTube. Ve lo raccomandiamo caldamente, sposando le parole con cui Andre Camilleri descrisse l’opera:

«Cinquant’anni di storia italiana patiti e raccontati con straordinaria forza narrativa. Un manuale di sopravvivenza involontario e miracoloso».

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