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EDITORIA

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VISIONI D’ARTISTA
NELL’ANNO DI DANTE

Da più di un anno sento parlare di una nuova edizione illustrata della Divina Commedia. E mentre macero nella curiosità, propongo qualche riflessione che parte da Gustave Doré per giungere ad Agostino Arrivabene.

Capita di tanto in tanto di imbattersi negli annunci di operazioni editoriali davvero suggestive, di quelle che catturano l’attenzione per motivi di prestigio, originalità o coraggio. O tutte e tre le cose. La primavera scorsa è rimbalzata su più testate di arte o di libri la notizia che Agostino Arrivabene, uno dei migliori pennelli italiani contemporanei, stava lavorando ad una nuova edizione illustrata della Divina Commedia. Notizia resa ancora più interessante dal rilascio di alcune tavole davvero gustose, spie della grande qualità artistica dell’operazione. Non che avessimo dubbi a riguardo: non solo Arrivabene è un pittore affermato, ma anche un artista caratterizzato da una poetica inconfondibile, adatta forse come nessun’altra a descrivere l’universo immaginifico del Sommo Poeta. (A chi volesse approfondire la figura di Agostino Arrivabene consigliamo di iniziare da una visita virtuale – ma non troppo – al suo studio di Pandino (CR), accompagnati dalla sempre preziosa penna digitale di Rocaille).

Annunciato dunque già da un pezzo, il progetto dell’artista lombardo (coadiuvato da Federica Maria Giallombardo ed Enrico Malato) è stato preso in carico dalla torinese Hapax Editore e dovrebbe vedere la luce nell’autunno di quest’anno. La presentazione dell’opera è infatti inserita nel programma Dante SettecenTO, palinsesto di eventi con cui Torino celebra il settecentesimo anniversario della morte di Dante. Oggettivamente Hapax si è prestata ad un’operazione coraggiosa. Non solo per la complessità tecnica di dare alle stampe un testo che deve coniugare l’apparato testuale con quello artistico rendendo giustizia al fascino e alla complessità di entrambi, ma anche per l’inevitabile confronto con uno dei pilastri della storia del libro, quella Divina Commedia illustrata da Gustave Dorè che alberga nell’immaginario collettivo di buona parte di noi.

Edoardo Sonzogno nel 1868 era nel pieno della sua impetuosa attività di editore, anche se questo termine è decisamente riduttivo per descrivere il suo approccio imprenditoriale. Aveva preso in mano la secolare ma appassita casa editrice di famiglia e le aveva impresso un ritmo nuovo: nel 1866 aveva fondato Il Secolo, l’anno successivo il mensile Le cento città d’Italia e poi il quotidiano La Capitale, inaugurato esattamente il giorno successivo alla breccia di Porta Pia. Non pago, aveva lanciato il guanto di sfida a Ricordi, all’epoca colosso dell’industria musicale, producendo spettacoli teatrali in tutta Italia. Ecco, proprio in mezzo a questa vertiginosa e poliedrica produzione culturale, Edoardo Sonzogno aveva trovato anche il tempo – e il fiuto – di dare alle stampe l’edizione italiana della Divina Commedia illustrata da Gustave Dorè, opera già collaudata dalla francese Hachette che l’aveva pubblicata nel 1861.

Le illustrazioni di Gustave Doré per la Divina Commedia sono state per un secolo e mezzo il nutrimento perfetto del nostro immaginario ultramondano, e forse tra le principali responsabili di una certa idea visiva che abbiamo dell’opera dantesca. 135 incisioni (75 per l’inferno, 42 per il purgatorio e 18 per il paradiso) che costituiscono anche una delle imprese più celebri e celebrate dell’artista francese, pur abituato ad illustrare numerosi “monumenti” della letteratura europea e della spiritualità (da ricordare almeno Don Chishiotte, le Fiabe di Perrault e la Bibbia). Nato a Strasburgo nel 1832, Gustave Dorè ha trascorso una vita intera a fare disegnetti. Nel senso che pur essendo un artista eclettico ed estremamente dotato, visse sempre ai margini della pittura accademica a causa della sua innata vocazione ad illustrare. Pare che una volta abbia detto: «Illustrerei tutto!», affermazione che rende bene l’idea dell’approccio artistico ma che non dipana del tutto la sua consapevolezza circa il valore maieutico della sua atipica carriera. Insomma: nell’ottocento il tasso di scolarizzazione non era certo quello odierno e il corredo illustrativo di una pubblicazione aveva una funzione che sfociava ampiamente nel sociale. Le immagini create da Doré, avvalendosi di una tecnica non a caso perfettamente adatta alla riproducibilità tecnica, rappresentavano davvero un modo efficace di parlare agli uomini del proprio tempo, di raggiungerli in maniera più capillare di come fosse mai stato fatto.

«(…) Illustrare Dante è un’occasione di confronto, una pietra d’inciampo per riconsiderare il senso dell’esistenza, le vanità da recidere. È un’opportunità per rendere l’uomo più consapevole. (…)»

(Agostino Arrivabene su Artribune)

Anche Agostino Arrivabene è dunque mosso non solo dalla voglia di interpretare l’opera, ma anche dalla volontà di parlare all’uomo contemporaneo, di renderlo consapevole, di restituire alla Divina Commedia quel ruolo iniziatico che ha avuto per secoli. Si percepisce una vicinanza tra l’intento di Arrivabene e quello di Doré, anche se i due artisti si rivolgono a società così diverse. Sarà dunque bello confrontare le due opere, non appena sarà possibile. Non tanto sul piano estetico, semiotico o filologico, quanto per avere un punto di vista originale sulla percezione della nostra società, mediata dalla rappresentazione figurativa di un’opera immortale.

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